di Marco Mietto
Innovazione è “cambiare paradigma”; fare saltare gli schemi; rovesciare la logica. E’ difficile, ormai, contraddire questo punto di vista.
Per rendere (almeno un poco) più efficiente il sistema pubblico di incrocio domanda offerta di lavoro meno efficiente d’Europa, si potrebbe provare a cambiare paradigma. Non lo si è fatto con Garanzia Giovani, il Reddito di Cittadinanza rischia, per la stessa ragione, la stessa sorte.
Se così fosse, i giovani ne sarebbero nuovamente vittime.
In occasione del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale, 25-25 maggio 2018, Giuseppe Terzo, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Lumsa, di Palermo Paper ha presentato un rapporto su Terzo settore come driver delle politiche di attivazione dei giovani Neet in un’ottica di “secondo welfare”. Alcune riflessioni a margine dell’iniziativa Youth Guarantee.
Neet è etichetta problematica: vi si affastellano troppe condizioni troppo diverse e perciò troppo difficili da comprendere nelle loro specificità. Sfuggente, anche, alle rilevazioni statistiche non fosse altro che per il troppo lavoro nero che inghiotte i giovani. All’opposto, invece, focalizzarsi sui Neet può essere utile per ricalibrare l’intero ciclo delle politiche per il lavoro in funzione di contrasto alla esclusione. Se, come scrive Terzo, i Neet sono portatori di “scoraggiamento, disillusione e scarso investimento nel proprio capitale umano”, tanti altri, non solo giovani, lo sono. Se, ancora “lo status di Neet sembra indurre un processo di segregazione individuale che condiziona i livelli di capitale sociale, civico e relazionale della società, limitandone la sua coesione” questo accade a molti dei milioni di poveri, giovani o non giovani, Neet o sotto occupati o a rischio di dispersione scolastica o esclusione sociale…
In un Paese dove, come altrove mai, si accede al lavoro per canali informali, il sistema pubblico non ha mai intrapreso l’avventura di creare rete, sistema, alleanze, sinergie con l’informale. Il massimo che è stato concepito e tentato è stato un incrocio (con molti tratti di delega o esternalizzazione) col privato: quello profit, però. Così che anche il diritto al lavoro è stato annesso al campo dei beni con cui si possono fare affari.
Terzo propone e analizza “buone prassi” che dimostrano come nella pratica dell’accompagnamento al lavoro non sia difficile attuare ciò che, nel campo della educazione, è assodato da decenni: educazione formale, informale e non formale sono tre dimensioni di un solo sistema che funziona ed è efficace nella misura in cui le tre dimensioni sono integrate e complementari.
Dall’analisi di Terzo emergono i maggiori vantaggi che il non profit potrebbe conferire al sistema di inclusione e che vanno in molte direzioni: dalla varietà delle offerte (di lavoro, di formazione, di animazione, di addestramento, di orientamento…) che il no profit garantisce con le proprie attività alla qualità di informazioni e conoscenze (del territorio, delle reti sociali, dei contesti microsociali degli individui…) che può mettere a disposizione delle istituzioni formali.
Il quadro che ne esce è tutt’altro che nuovo. Fin dall’inizio del secolo tutto questo è stato molto profondamente studiato, compreso e registrato, anche in Italia. Ricordarlo, riprenderlo, riconsiderarlo è , però, doveroso. E forse un giorno – chissà- potrebbe essere perfino utile. Sarebbe questo, il rovesciamento del paradigma: il sistema formale di incrocio domanda offerta di lavoro “usa” una parte del patrimonio di informalità come uno strumento, un alleato, un partner del quale apprendere, condividere e valorizzare cultura, linguaggi, dispostivi, presidii.